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Archive for gennaio 2011

L’Egitto brucia.
Il popolo non ne può più di trent’anni di dittatura del tipo peggiore, cioè quella che oltre a negare i diritti, ti fa pure tirare la cinghia.

Ma il popolo egiziano ha visto di peggio.

Ha sopportato l’antica schiavitù di generazioni e generazioni di disgraziati che hanno costruito le piramidi, che è un momentino più faticoso che montare il Billy dell’IKEA, fidatevi.

Ha sopportato per una generazione la schiavitù attuale, quella che in riva al Mar Rosso li obbliga a sorridere a tutte le famiglie italiane con bambini, notoriamente la categoria più malfamata del mondo alberghiero.

Ha sopportato una generazione di schiavitù diplomatica con l’Occidente: se vogliono i soldi americani, devono fare i vicini simpatici di Israele.

Ha sopportato due generazioni di schiavitù diplomatica con i Paesi Arabi, visto che devono aiutare i Fratelli Palestinesi e far finta di non vedere tutto quello che passa dai tunnel sotto Gaza.

Sembrava che la capacità di sopportazione del popolo egiziano non avesse limiti, fino all’ultima goccia: quando la gente ha saputo che per venire in Italia e farsi ricoprire di soldi, senza per altro dover neanche sfiorare un cazzo, basta essere la nipote di Mubarak… eh, gente, lì non c’hanno visto più…

Dottordivago

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Due dritte: il post contiene frasi in dialetto alessandrino, che richiedono una pronuncia particolare; il simbolo fonetico   indica la “c” dolce di “cielo”, indica la “g” dolce di “gelo”, ø indica una vocale che è un misto tra una “o” e una “e”, ä indica una “a” molto chiusa, quasi una “o”.
Possiamo partire.

Alla facciazza del Pirata, che non sopporta i “continua”, per ultimo ho lasciato il terzo amico “tunisino”: Carlo, alessandrino in pensione a Biserta.
Lo conosco da anni, in quanto grande pescatore e, soprattutto, gran narratore: non importa cosa dice, è come lo dice, considerando anche che si esprime rigorosamente in dialetto alessandrino.
Le uscite in barca con lui potevano dare frutto o meno in termini di pescato, di sicuro mi pelavo dal ridere per tutto il tempo; se a questo aggiungiamo che io adoro sentire raccontare storie di vita vissuta dei tempi andati, la “storia raccontata dalla gente”, si capisce come si potesse verificare un evento di portata cosmica come quello che si ripeteva regolarmente quando eravamo insieme: un altro che parla e io che ascolto.
No, davvero, qualche volta è successo… E va beh, allora non credeteci!…

Carlo è nato nel 1940, quindi non ha visto nulla della guerra, se non i risultati, e i suoi ricordi iniziano nell’immediato dopoguerra.
Uno dei più vividi è quello dell’arrivo degli Americani in Alessandria, evento che ha cambiato il pensiero politico di suo padre; pur essendo più di sinistra che di destra, non riusciva a negare che Mussolini avesse fatto anche qualcosa di buono ma, dopo aver visto gli Americani, ha sentenziato:

’U Duce l’auriva guadagnè an con sa gent? L’era ‘n pover semo!
(Il Duce voleva vincere contro questa gente? Era un povero scemo!)

Carlo era andato con suo padre a “vedere gli Americani” il giorno in cui sono arrivati in città e tutti quanti si erano straniti nel vedere quei giganti sia bianchi che neri che regalavano cioccolato e sigarette; pensandoci bene, credo che nella nostra storia recente sia stato l’avvenimento più simile allo sbarco di extraterrestri sul nostro pianeta.
C’era da capirli: da noi si faceva la fame da secoli, il rachitismo era diffuso quasi come l’obesità oggi e la statura media rispecchiava il pranzo medio.

Come la signora che diceva “Credevo che la mia camicia fosse bianca…”, i miei concittadini credevano di aver già visto tutto con l’arrivo dei Tedeschi, cosa che aveva fatto dichiarare al padre di Carlo:

C’me ca fuma a perdi la ‘uera ansema a sa gent?
(Come possiamo perdere la guerra, insieme a questa gente?)

Anche se ad Alessandria le truppe tedesche erano composte principalmente da “territoriali”, cioè poco più che impiegati in divisa, lo stato di salute ed il livello di equipaggiamento degli Unni facevano invidia a gente che da secoli mangiava polenta, patate e nient’altro, gente che prima dei bombardamenti, quando si scappava nel rifugio, si premurava di portarsi dietro la bottiglia dell’olio, vero e, spesso, unico patrimonio di famiglia.
Lo spettacolo si era tenuto in centro; terminata la parte scenografica a favore del popolo, i liberatori cominciarono a sbrigare un po’ di lavoro, tra cui occuparsi dei prigionieri tedeschi che si erano asserragliati dentro i loro capisaldi e per giorni avevano rifiutato di arrendersi ai partigiani: era molto più sicuro farlo con gli alleati.
Nel dubbio che partisse qualche fucilata per sbaglio, tutti se n’erano andati.

Carlo e il padre se ne tornavano a casa, in periferia, vicino al fiume; erano quasi arrivati, quando vengono raggiunti da una Jeep con quattro Yankees a bordo i quali, a gesti e con tre parole in italiano, spiegano loro che cercano il ponte.
Davanti a casa di Carlo c’era un muròn, un gelso, la cui ombra era un invito a nozze per quattro ragazzoni affamati e lontani dall’occhio dei superiori, così decidono di fermarsi e mangiare un boccone: Carlo, ancora oggi, è convinto che abbiano scelto quel posto per poter dar da mangiare anche a quel povero Cristo e mezzo che erano lui e suo padre.

A quel punto il racconto diventa entusiasmante, Carlo lo rivive con una partecipazione totale e un’impressionante lucidità di particolari.
La prima cosa erano le scarpe: loro avevano scarpe con almeno due o tre proprietari precedenti, gli Americani sfoggiavano anfibi in vitellino alti fino a sotto il polpaccio; suo padre non si era mai neanche sognato un paio di scarpe così, tant’è vero che guardando quello che poteva avere la sua stessa misura, gli mise una mano sulla spalla e disse:

A l’è mei c’at tena d’otʃ : s’i ‘t masu, mei a pei el scarpi…
(È meglio che ti tenga d’occhio: se ti ammazzano, mi prendo le scarpe…)

L’Americano rispose con un divertito “Okkey, Okkey..”

Poi arrivò il cibo: questi tirarono fuori delle scatole di carne che Carlo descrive “grosi c’me ‘n sidèl” (grosse come un secchiello), una ciascuno; probabilmente non erano così grosse ma una sola rappresentava comunque l’apporto proteico annuale per la sua famiglia.
Quando ne diedero una ciascuno anche a loro, suo padre ebbe quasi un mancamento: una finì immediatamente sotto la giacchetta lisa, l’altra se la divisero, accompagnandola con le gallette.
Carlo sostiene di non aver mai mangiato una cosa così buona, anche se si trattava del famigerato SPAM, il patè di manzo e maiale con cui l’esercito USA ha impestato -ma anche sfamato- mezzo mondo; nelle Hawaii, poi, è diventato il vero piatto nazionale.
Ancora oggi, Carlo adora il Jambonet della Montana, proprio perchè gli ricorda quel giorno.

Mi scappa di divagare, astenersi under 45.

C’è poi Jambonet, che puoi fare a fette,
comunque le mangi son sempre perfette.
Così nutriente, appetibile, sana,
è carne ben scelta, è carne Montana. 

Gente, se non avete mai visto i caroselli con Gringo, non avete visto niente…

E poi il cioccolato: Carlo aveva così tanta saliva in bocca, la vera acquolina, che spruzzava dappertutto cioccolata liquida, con suo padre che gli diceva “manda giù, manda giù!”, mentre gli americani si ammazzavano benevolmente dal ridere.
Chi è stato in guerra ha sempre visto il nemico come un orco mangiauomini, per poi scoprire, una volta faccia a faccia, che si trattava di un uomo come lui; quel giorno è successo l’opposto: contro dei giganti così ben nutriti e calzati, “solo quello scemo del Duce poteva pensare di vincere una guerra”.

Fino al 2003, Carlo aveva una barca a Genova, con tanto di baracca –quasi un monolocale- sulla banchina dell’imbarcadero, in cui viveva praticamente in pianta stabile dopo il pensionamento, avvenuto in tenera età, in quanto ex dipendente pubblico; tornava a casa un po’ più spesso di Salem (post precedente), diciamo un giorno alla settimana; si faceva vedere dalla moglie, poi si fiondava in negozio da me, quando stavo in armeria: la scusa era quella di rifornirsi di roba da pesca, in realtà ce la raccontavamo per tutto il giorno.

Proprio in un’occasione simile, si presenta l’altro, l’amico comune che ha spostato la fabbrica di galleggianti a Biserta.
“Oh, maruchèn… c’me ‘t stai?…” (Oh, marocchino, come stai?)
Quattro cagate, poi el Maruchèn guarda Carlo e gliela butta lì:
“Ma cosa ci fai ancora in Italia? Hai una bella pensione e qui non ti manca niente ma là faresti l’Imperatore. Conosco tutti, ti faccio sistemare bene; poi c’è tanto di quel pesce che a Genova te lo sogni; si mangia da Dio: frutta, verdura, carne e pane sono come da noi cinquant’anni fa; gli uomini giovani sono tutti a lavorare in Europa e le vedove sono giovani e belle, per niente smorfiose: uno spettacolo! Se ‘t speci, gnuränt?” (Cosa aspetti, ignorante?)

Preciso che Carlo aveva una sessantina d’anni ed una forma fisica spettacolare, quindi non era sordo a certe sirene…
Abbozza una difesa: ”Tu sei separato ma io ho una moglie che adesso mi vede una volta alla settimana; se anche fosse una volta al mese, mi mangio la pensione per andare avanti e indietro…”
”Ma fammi il piacere… Là non riesci a spendere i soldi, vivi con un decimo della pensione… e per il viaggio basta dare 50 euro (per andata e ritorno) al comandante di uno dei mercantili che fanno la spola tra Genova e Tunisia e dormi una notte in una cabina alla buona. Hai anche la scusa che la nave riparte il giorno dopo, così dici che non ti puoi fermare e a casa tua non ti rompono i coglioni…”.

Morale: quando el Maruchèn è ripartito, Carlo si è aggregato in missione esplorativa. 
Due settimane dopo era tornato, letteralmente euforico: “Ma sai che posto?… Si sta da Dio! Non ho mai mangiato così bene… e non parliamo della pesca!… Mai visto tanto pesce!… Poi c’è un Francese che dirige quattro o cinque alberghi che da una vita cerca uno con la barca che porti i turisti a pescare, vuole un Europeo, visto che dei Tunisini i turisti non si fidano… Altro che mangiarmi la pensione: lì ne metto ancora via…”
E questo era un ulteriore, ottimo argomento per tenere buona la moglie: praticamente andava all’estero a cercar fortuna…
Fatto sta che carica la barca e la Panda su una nave e si trasferisce.

Quando si dice che la vita ricomincia a sessant’anni…
Ogni volta che tornava lo vedevo abbronzato e in grande forma, realmente ringiovanito ed entusiasta della scelta fatta; “Carlèn, a stag ‘me ‘n puciu!” (Carlo –siamo omonimi, non mi chiamo davvero Dottordivago- sto come un pascià!)
E comincia a fare la cosa per cui lo amo: inizia a raccontare.
La cosa che mi fa più piacere è che si trova bene con la gente, dice che gli sembra di essere tornato indietro di cinquant’anni, quando nessuno aveva sempre fretta –non si sa di fare cosa…- e tutti erano disponibili:

A vòt ca’ t’ diga? I son gran brava gent!
(Vuoi che ti dica? È gran brava gente!) 

”E le vedove, come sono?…” 
Gli brillavano gli occhi: mi raccontava che non si metteva con quelle troppo giovani, ci mancherebbe altro… Però aveva il suo giro di quarantenni a cui non negava mai la possibilità di tirar su qualche dinaro con un bucato o con le pulizie di casa.
E loro non gli facevano mancare niente, come si evince dal seguente inno in favore dell’integrazione razziale, magari a scapito della finezza: 

B’sogna abituesi, ‘i än in poc l’udur ‘d servà
(bisogna abituarsi, hanno un po’ l’odore di selvatico)
ma ‘i än del brigni nuasøti e di bodʒ  del cü neier ch’i son in spetàcul…
(ma hanno delle prugne –vagine- noisette –color nocciola- e dei buchi del culo neri che sono uno spettacolo…)

Non c’è niente da fare: a girare il mondo, se ne imparano di cose…

”Quindi fai conto di starci ancora un po’, giusto?”
”Un po’?! Sto là finche le gambe mi portano! E quando non mi portano più, torno ad Alessandria a lasciare ammuffire le ossa…”

Evento quanto mai remoto, considerato quanto mi viene riportato; non avendo più l’armeria, lo vedo meno frequentemente di prima ma ho sempre notizie da sua figlia, mia coetanea: adesso Carlo ha 71 anni, ne dimostra 60 e ha le energie di un cinquantenne.
Finora non ha avuto un benchè minimo problema a causa della situazione socio-politica e continua a godersi la vita.
Mi ha già invitato mille volte ma adesso devo smetterla di fare il cretino: appena in Tunisia si sistemano le cose, faccio un salto a trovarlo, deciso.

Sto pensando alla pesca, banda di maniaci: a me il gusto di selvatico piace nel piatto, non nel letto.

Dottordivago

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Vi avevo già raccontato che dopo l’invasione irachena del Kuwait, nel 1990, non ho più avuto notizie dei miei amici Jakob e Alì, che vivevano nella capitale.
Gli avvenimenti tunisini di questi giorni mi hanno fatto stare un po’ in pensiero per alcuni amici che vivono là, anche se i pericoli a cui potrebbero essere esposti sono infinitamente minori a quelli corsi dai Kuwaitiani a suo tempo.

Uno è il padre di un amico che si è trasferito là con la sua azienda che produce galleggianti per la pesca e per vie traverse ho saputo che sta bene.
Del secondo, Salem, non ho proprio speranze di avere notizie: si tratta di un grande amico e, allo stesso tempo, di un amico per modo di dire, che ho conosciuto nel 1996 e che non ho più rivisto, semplicemente perchè sono un coglione.

In quell’anno, due coppie di amici hanno deciso per una vacanza primaverile a Djerba, al di fuori di festività o ponti, giusto per stare una settimana a fare un cazzo; sapendo che in situazioni simili io non giro il culo agli amici, hanno tirato dentro anche me e Bimbi.
È stata la mia prima esperienza di Villaggio Vacanze: si trattava del Bravo Club, allora gestito da Alpitour, un posto abbastanza bello, con una cucina di livello mediocre, rivalutata negli anni a seguire, dopo essere stato in altri tre villaggi (Formentera, Cayo Largo e ancora Djerba) ed aver chiuso, mi auguro a vita, questo tipo di esperienza.

Al Bravo Club Bimbi era nel rosso dell’uovo, ci stava come un maiale nella merda.
Io volevo morire, ovviamente vendendo cara la pelle e portandomene dietro quanti più possibile.
C’era un servizio animazione assolutamente soffocante, praticamente 20 ore al giorno (ma secondo me qualche rompicoglioni lo trovavi in giro anche alle 4 del mattino…) e questo andava a scapito della qualità.
Se in televisione hai idee per dieci minuti, allunghi il brodo con due inseguimenti e una sparatoria e ti esce il telefilm, altrimenti allunghi l’acqua con cui allunghi il brodo –si chiama TV omeopatica…- e ci fai una fiction di quattro episodi o una telenovela di venticinque anni.
In teatro, con dieci minuti di idee fai una commediola da quattro soldi che non cagherà nessuno; se le idee bastano per due minuti, fai una ponderosa opera di teatro sperimentale osannata dalla critica.
Al cinema, con cinque minuti di prodotto puoi scegliere: se si capisce che è una cagata, puoi diventare un Vanzina, se non si capisce neanche quello, diventi un Fellini.

In un villaggio vacanze hai un programma che deve accompagnare gli ospiti per una settimana, poi ricominci; però, se durante la settimana vuoi fare 20 ore al giorno di intrattenimento, o sei un fenomeno o raschi il fondo del barile: in quel posto il fondo non c’era più: raschiavano la terra sotto il barile.
Ovviamente ho passato il primo giorno dicendo “no grazie” a tutte le proposte di giochini, corsi e tornei; il secondo giorno sono passato a “non rompetemi più i coglioni” e dal terzo giorno sono diventato una specie di fantasma del villaggio.
Non sono un orso, tutt’altro, solo che non capisco perchè in vacanza dovrei lanciarmi in attività che rifiuto tutto l’anno, anno in cui rifuggo come la peste i rompicoglioni volontari, figuriamoci quelli pagati per farlo.

La spiaggia era bella e dove la sabbia lasciava il posto a una bassa scogliera c’era una baracca circondata da un mezzo acro di vasellame e ceramiche, alcune molto belle, Made in Tunisia, visto che i cinesi non erano ancora usciti dal loro cortile.
Lì viveva Salem.

Il primo giorno, canne da pesca in spalla, mi fermo proprio in quella zona e chiedo al tipo se mi posso piazzare lì: a differenza della vicina spiaggia, lì il mare era un misto di scogli sommersi e posidonia, ottimo per la pesca e mortale per pallonari e racchettari.
”Veni, veni, amico: anche io sono pescator…”
Vedere la mia attrezzatura e non staccarmi più gli occhi da addosso è stato una cosa sola: era letteralmente affascinato da quello che usciva dalla sacca e da quella specie di canterano della nonna che è la mia cassetta da pesca.
Vede cose che non immaginava esistessero, che io gli regalo e che lui, con aria levantina, intasca al volo: è fatta, mi sono comperato il posto.
”Ma… posto qui è bono per pesci ma rocce rompono le fil…”
”Basta lanciare appena dopo le rocce: è il posto migliore”
”Come fai tu?… Troppo lungo… come dici tu?… Troppo lontano!”
Non sapeva di avere di fronte colui che a Formentera è stato definito “El mas grande pescador del Mediterraneo”…
Per lui mi esibisco in un lancio “Ground”, con piombo a terra: gesto tecnico pulito e veloce, il piombo vola, vola, vola e tocca l’acqua dieci metri dopo gli scogli, esattamente il triplo della distanza che il buon Salem si sarebbe aspettato.
Strabuzza gli occhi e di colpo non sono più un turista che regala ami ed accessori come facevano gli Americani con le sigarette in tempo di guerra: sono il Dio della Pesca!

Comunque, pescare era quasi impossibile; soffiava un forte vento traverso e in quelle condizioni, con una settantina di metri di filo fuori dall’acqua in balia del vento, lo stesso filo si mette a ronzare come un calabrone; fuori non si sente ma in acqua sì, così si trasmette tutto all’esca: chi di voi azzannerebbe un panino che fischia o che russa?
Normalmente si potrebbe ovviare mettendo la cima della canna in acqua, così tutto il filo resta sommerso e non ronza più ma lì era impossibile: affondando, il filo si sarebbe impigliato negli scogli.
Dopo mezzora capisco che è tutto inutile e sbaracco, aiutato da Salem che non mi ha più mollato: mi sta talmente attaccato che sembro una donna andina con un bambino di ottanta chili nello zainetto.

Parte la chiacchiera, che dalla pesca si sposta al resto dello scibile: ma sai che ‘sto Salem è un bel tipo?
Molto spesso, gli uomini di cultura arabo/musulmana, se non hanno venduto l’anima a qualche stronzo di prete che li incattivisce, sono persone splendide, in grado di tirar fuori una cultura inaspettata o, in mancanza di essa, una saggezza da noi dimenticata.
Morale: ho passato il resto della vacanza con Salem.
Cena e ore serali le dedicavo a moglie e amici ma la giornata la passavo con Salem; un paio di volte ho pranzato con lui, nella baracca sulla spiaggia dove, da bravo musulmano, il menù prevedeva tutta roba “Bono pur manjare…”, come diceva lui: olive, pomodoro, formaggio e baguette intinta nell’olio.
E acqua, porca troia: non me la sentivo di insultarlo presentandomi con un paio di birre fresche.

Mi raccontava della sua famiglia che viveva a Sfax; tre o quattro volte all’anno Salem raggiungeva moglie e figli, giusto per metterne in cantiere un altro.
Spesso davo un occhio alla bottega mentre lui pregava ed erano momenti straordinari, seduto sulla sabbia con il sottofondo del sommesso mormorio della preghiera che si mischiava al rumore del mare e del vento: sono situazioni indimenticabili, in cui mi rendo conto di perdermi qualcosa, nella vita.

Insomma, una settimana full immersion di cultura arabo/musulmana/tunisina.
Vi giuro che la partenza è stata una piccola tragedia, mi sembrava di abbandonare mio fratello.

Ci sono tornato, a Djerba, dieci anni dopo, in un villaggio orribile vicino al Bravo Club.
Era il 2006, l’anno della sfiga turistica: gennaio in Messico sotto una pioggia costante; settimana bianca di Bimbi a febbraio, in un postaccio da Inglesi ciucchi, Marilleva, a causa della sua amica che aveva prenotato lì, settimana baciata da un’unica nevicata durata sette giorni; maggio a Djerba, accompagnati da un ventaccio teso e gelido, roba da stare in spiaggia con la maglietta –io- e la felpa –Bimbi-.
E non sono andato a cercare Salem, volontariamente: l’altra volta eravamo in sei e Bimbi non si annoiava, stavolta c’eravamo solo io e lei e non volevo correre il rischio di trasferirmi una settimana nella baracca sulla spiaggia, anche se avrei dato un braccio per passare un po’ di tempo con Salem: una specie di Brokeback Mountain mediterranea, senza sesso, naturalmente.

Così non ho rivisto Salem ed è per questo motivo che mi sono dato del coglione all’inizio.    

Continua

Dottordivago

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Eh lo so, sui titoli non mi impegno molto: quando ne trovo uno che mi viene comodo, cambio solo il numero di serie o vado di aggiunte successive.
Il rischio è quello di ritrovarmi con titoli tipo film di Lina Wertmüller o con parole interminabili come succede ai tedeschi con la loro mania di definire un concetto complesso con un’unica parola, tipo

Rhein-Main-Donaugrossschifffahrtswegdampf-
schifffahrtgesellschaftskapitänsuniformknopf

che significa “il bottone dell’uniforme del capitano della linea di navigazione a vapore della grande linea di navigazione Reno-Meno-Danubio”

Mavaffanculoavoieatrequartidelvostropaese…
Mi impegno poco anche sui contenuti: ieri ho pubblicato (mi sono ripromesso di non usare mai il verbo postare…) il post “Doppio mah…”, poi mi sono ricordato alcune cose che avrei voluto scrivere, così l’ho cancellato e l’ho sostituito con “Doppio mah… remix”.
Ora ho trovato un appunto che mi sono scordato di inserire ieri e me la cavo con un “Appendice a…”.
Giuro: se mi viene in mente qualcos’altro, lo scrivo su un pezzo di carta e me lo leggo per i cazzi miei, giusto per non ritrovarmi con più titolo che contenuto del post…

Dunque, parlavo dei prezzi dei carburanti, argomento in cui inzuppano il pane tutti i presidenti di Associazioni Consumatori che vogliono apparire in televisione: “Scandalo di qua, truffa legalizzata di là…”
Mi sono preso la briga di fare due conti; per semplicità ho già fatto le conversioni lire/dollaro e euro/dollaro ed il risultato è il seguente:

anno stipendio impiegato prezzo barile prezzo benzina barili per stipendio Lt benz. per stipendio
1980 500.000 lire 30.600 lire 850 lire 16.34 588
2011 1.200 euro 69 euro 1.40 euro 17.39 857

In parole povere, con il proprio stipendio di 500.000 lire, l’impiegato del 1980 si poteva comperare 16,34 barili di petrolio o 588 litri di benzina.
Lo stesso impiegato, ormai prossimo alla pensione nonchè lavativo o pirla, visto che non ha avuto scatti di anzianità, con lo stipendio attuale di 1.200 euro si può comperare 17,39 barili di petrolio o 857 litri di benzina.
Si stava peggio quando si stava meglio.

Da ciò si evince che, come i prestigiatori, anche le Associazioni a tutela dei consumatori ci sventolano una mano davanti agli occhi mentre l’altra esegue il trucco.
Dove sta il trucco?
Sta nel parlare di argomenti popolari e piacioni, per tacere in modo consapevole su quelli più reali, quelli su cui si potrebbe davvero ottenere qualcosa.
Naturalmente, però, a scapito di qualche amico degli amici.

Sai all’OPEC e a tutti quanti i petrolieri cosa glie ne frega di un Codacons che si scandalizza? Soprattutto considerando che all’aumento di un centesimo sul costo industriale corrisponde un aumento di due o tre centesimi di tassazione, così anche il governo è sistemato…
Qualche mese fa tutti i TG hanno sparato uno scoop mica da ridere: “Negli ultimi dieci anni la spesa per l’energia elettrica è aumentata del 25%…”
E ‘sto cazzo?
A parte il fatto che non esiste un prodotto che negli ultimi dieci anni non sia aumentato almeno del 50%, non suona strano un falso allarme-energia proprio in un momento di liberalizzazione tariffe, mentre tutti i giorni c’è un ragazzino al citofono che vuole rifarti il contratto della luce?
Non sarà per srotolare il tappeto a qualcuno che vuole una fetta della torta dell’Enel?
Non sono in grado e non ho voglia di calcolare tutti i soldi che si potrebbero risparmiare con un impegno reale e non di facciata, però ci dovrebbero spiegare perchè non si incazzano un momentino per i prezzi di un settore decisamente non voluttuario: i farmaci.

Negli anni 80 ero un ragazzo per bene e mi facevo la doccia tutti i giorni.
Mi correggo: ero una testa di cazzo ma pulito, visto che mi facevo la doccia tutti i giorni.
E da bravo coglione mi facevo anche lo shampoo, tutti i giorni.
Così, verso la fine del decennio, mi sono ritrovato con uno strato di forfora alto un dito: oh, giuro, si staccavano le piastrelle…
Ed ho lasciato una frenata nelle mutande quando un mio amico, coperto di psoriasi dalla testa ai piedi e per quel motivo noto come Alain Crost, mi ha dato preventivamente il “benvenuto nel club”…
Un dermatologo mi ha detto per prima cosa che sono un cretino e di fare due/tre lavaggi al mese con lo shampoo e tutti i giorni con l’acqua, poi mi ha prescritto un antinfiammatorio cutaneo, il Diprosalic, giusto per far passare la fase acuta.

Il Diprosalic è una lozione a base alcolica con un puntino di cortisone e di acido acetilsalicilico; non unge e non puzza, l’unico dito nel culo era l’applicazione: il beccuccio lascia una riga di prodotto larga come quella della Bic e ricoprirci il mio testone battezzato col lievito era un lavoraccio, un po’ come imbiancare la Grande Muraglia col pennellino del mascara.
Con una confezione –30 cc- ci facevo quattro derattizzazioni e l’esborso non era un problema: 4.200 lire a confezione.
Tempo un mese avevo sbrigato la pratica e detto ad Alain Crost di prendere la mia tessera del club e di mettersela nel culo.
”Allarme rientrato” dice il dermatologo: se si dovesse ripresentare, si ricomincia per due settimane col Diprosalic.

Infatti, anche se in forma leggera, si ripresenta il problema tre o quattro anni dopo: farmacia, Diprosalic, 8.500 lire…
Ma… non costava la metà?
Segue supercazzola del farmacista; va beh, con 20 o 30.000 lire risolviamo il problema.
Arriviamo al 2000: non so se è stato lo shampoo turco usato per tre settimane in vacanza, resta il fatto che a settembre ho un po’ di forfora: farmacia, Diprosalic, 18.000 lire…
Ma… non costava meno della metà?
Cambiava il farmacista ma la supercazzola era la stessa: poco male, di quella confezione ne ho pure avanzato, è bastato far vedere il Diprosalic alla forfora e quella ha fatto su gli stracci e se n’è andata.

Non mi è più servito negli ultimi dieci anni ma, cinque minuti fa, mi ha punto vaghezza di scoprire quanto costa adesso il Diprosalic e per queste cose c’è quella figata di internette:

diprosalic
E questo su internet: in farmacia costa sicuramente un 20% in più.
Dunque, facciamo due conti: stimando che in farmacia possa costare 18 euro, stiamo parlando di un farmaco che da 4.200 lire del 1990 è passato a circa 36.000 lire in vent’anni. Considerando che hanno ormai stra-ammortizzato tutti i costi di ricerca, dovrebbe costare si e no 1.000 lire, cioè mezzo euro.
Invece è aumentato di quasi nove volte rispetto al prezzo del 1990.
Il prezzo medio della benzina nel 1990 era pari a 1.425 lire, cioè 0.735 euro; oggi, nella peggiore delle ipotesi, costa il doppio.

C’è da fare un’altra considerazione.
Sulla benzina è possibile una certa difesa, si può iniziare ad usare meno la macchina: non te l’ha detto il dottore di andare tutti i week end al mare.
Dice: “Con la macchina ci vado a lavorare”; bene: se sulla macchina ci carichi quattro colleghi di lavoro, si divide la benza in cinque ma, fosse pure un solo collega, spendi già la metà.

Con i farmaci è diverso: primo, a differenza del week end al mare, te lo dice davvero il dottore che li devi prendere; secondo, anche se uno ha quattro amici con la stessa patologia, non è ne piacevole nè igienico ciucciare due minuti ciascuno la stessa pastiglia.
Dice: “Basta prendere una pastiglia ciascuno…”
Eh no, bello mio: da solo o in cinque, il consumo di benzina cambia poco, praticamente è lo stesso, e la stessa deve essere pure la pastiglia che si ciuccia tutto il gruppo.
E se poi si parlasse di supposte? Non è bello, fidatevi, incollare una supposta sul manico della scopa e tenerla nel culo due minuti ciascuno…
Anche perchè è roba che si scioglie e l’ultimo si beccherebbe solo più il manico.
Oddio, volendo si potrebbe mettere per ultimo un amico ipocondriaco e ricchione: trattandosi di malato immaginario, la mancanza di principio attivo non sarebbe un problema, resterebbe l’effetto placebo.
E soprattutto, trattandosi di ricchione, resterebbe l’effetto del manico.

Bòn, basta, come i grandi pugili Campioni del Mondo, mi ritiro col Titolo: volevo dire ancora qualcosa ma dopo questa non scrivo più niente.
Spero che ‘sta minchiata della supposta faccia ridere voi quanto ha fatto ridere me; mi è venuta in mente mentre rincasavo per pranzo, a piedi: ho fatto almeno cinque minuti di strada ridendo come un cretino, con la gente che mi guardava.
Cosa c’è da guardare, brutti tristoni incazzosi?
E fatevi ‘na cazzo di risata!…

Buona domenica.

Dottordivago

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Avevo già usato “Mah…” come titolo, un paio di anni fa; il tempo è galantuomo, infatti, da allora, le cose sono peggiorate, quindi questo mah me lo faccio doppio…
”Remix” perchè, pubblicando “Doppio mah…” questa mattina mi sono dimenticato un paio di cose, aggiunte successivamente.
Chi mi leggeva quando ho scritto il primo “Mah…” molto probabilmente oggi non mi sopporta più e chi mi sopporta ancora è arrivato da poco, quindi vi ripropongo il succo della faccenda:

Intervista di qualche anno fa ad un super manager di stato, non ricordo se De Vita o De Rita, comunque un soggetto da qualche miliardata di lire all’anno di stipendio, con noi in veste di sponsor, interpellato a proposito del costo della benzina.
Questo signore appartiene ad una categoria che dovrebbe essere in grado di spiegarci quello che succede, anzi, è una specie di Gran Mogol di quella categoria.
Infatti, alla domanda del giornalista:
“Gli italiani si chiedono perchè la benzina costa 2000 lire al litro”
‘sto luminare ha dichiarato con l’aria di quello che la sa lunga:
“Gli italiani devono capire che oggi, a livello industriale, la benzina costa 300 dollari alla tonnellata”.
E non si sbagliava, erano dati corretti.Messa giù così, uno chiede scusa per il disturbo e se ne va con la coda in mezzo alle gambe pensando “Come parla bene quello lì e quante ne sa…”.
Se, invece, uno fa come me e prende una calcolatrice, scopre ciò che il fenomeno ha detto.Allora, considerato che in quel periodo il dollaro valeva 1750 lire e sapendo che una tonnellata di benzina è pari a circa 1400 litri, il conto è semplice: 300 x 1750= 525.000 lire, che divise per 1400 litri fa circa 375 lire al litro.Ora, il fenomeno ha dichiarato con l’aria di quello che la sa lunga
“La benzina costa 2000 lire al litro perchè la benzina costa 375 lire al litro, cari coglioni che di economia non capite un cazzo…”Considerato che lo stipendio di questo signore al 99% delle probabilità ce l’abbiamo ancora sulle spalle noi, è lecito lanciare un sondaggio in cui si domanda se è completamente scemo o se ci prendeva solo per il culo?

Questa cosa mi è tornata in mente ieri, quando un amico mi ha mandato la solita catena di Sant’Antonio.
Teoricamente dovrebbe partire da Beppe Grillo, come dichiarato dall’incipit del messaggio, in realtà è un’immane cazzata in cui non credo ci sia la mano del personaggio, che magari sarà leggermente di parte ma che coi conti, solitamente, ci azzecca.

La storia è la solita: boicottare un paio di compagnie e non comperare più neanche la benzina per lo Zippo o il gasolio per pulire la catena della bici da Shell ed Esso.
Dopo qualche giorno di totale assenza di clienti, dovrebbero calare le braghe ed abbassare sensibilmente i prezzi: a quel punto, la gente dovrebbe tornare a rifornire da loro e girare il trattamento alle altre compagnie, che ridurrebbero a loro volta i prezzi.
Questo momò dovrebbe dimezzare il prezzo della benzina.

Il principio sarebbe corretto, le cifre sono una minchiata: due terzi del prezzo dei carburanti sono costituiti da tasse e dimezzarlo significherebbe scendere sotto al costo del greggio che, a 90 dollari al barile, è di circa 43 centesimi di euro al litro.
E poi, riguardo al pincipio teoricamente corretto, dobbiamo considerare che siamo in Italia.

Il mio negozio è all’entrata nord di Alessandria, costituita da uno stradone costellato di distributori, uno attaccato all’altro: Agip, Erg, Esso e, da un mesetto, un “no brand”, Dio lo benedica.
Prima i prezzi si discostavano di qualche millesimo: ai primi di dicembre, per il gasolio si parlava di 1,300; poi, con l’arrivo del “no brand” che ha messo fuori un bel cartello 1,210, i miei amici della Erg

ERG VIA GIORDANO BRUNO, il miglior lavaggio in città!

hanno pensato bene di passare da circa 1,300 a 1,209, un millesimo in meno del “no brand”, con la differenza che al “no brand” devi infilare il grano, scegliere la pompa, impuzzolentirti le mani; se poi nel serbatoio non ci sta la cifra che avevi deciso, devi ritirare lo scontrino nella macchinetta -prima che se lo pigli qualcuno che sta infilando i soldi nella stessa macchinetta- portarlo al bar, fai la penitenza, fai la riverenza, guarda in su, guarda in giù, poi dai un bacio a chi vuoi tu e fartelo rimborsare –lo scontrino, non il bacio…-
Alla Erg le mani se le sporcano Gabriele o la sua morosa o uno dei ragazzi e questo è un servizio che da un’altra parte costa cinque euro a pieno.
A proposito: se volete provare il miglior lavaggio in città (non si nega mai una reclame ad un amico…), portatevi dietro uno storditore elettrico e, quando vedrete l’addetto che passa per la terza volta sul pulito, dategli un colpetto, almeno non vi consuma la macchina a forza di strofinare…

Anche se uno non fosse a conoscenza di questa figata, restano i cartelli che questa mattina, al mio passaggio di un’ora fa, recitavano:
no brand = 1,240
Esso = 1,280
Erg = 1,239 (sempre un millesimo meno del no brand)
Agip = 1,290

C’erano due macchine al no brand, dove il prezzo è buono ed è dotato di bar;
tre alla Esso, dove il carburante costa di più e te lo devi fare per i cazzi tuoi comunque, ma almeno c’è il bar, bello;
un paio alla Erg, dove non c’è il bar ma, solo per il prezzo, mi aspettavo il pienone;
quattro macchine all’Agip, il posto più caro, senza manco il bar e ultimo della fila, quindi uno arriva lì dopo aver visto tutti prezzi più bassi ma si ferma lì lo stesso.

Ora, siamo un popolo di imbecilli sì o no? 
E vorremmo mettere d’accordo e muovere a comando milioni di persone, oggi tutti in un posto, domani tutti in un altro?
Ma per piacere…

Oddio, il fatto di essere in Italia, volendo porta anche vantaggi.
Volendo, potrei comperare il gasolio a 0,80 e la benzina a 0,90 dai soliti autisti che girano a rifornire i distributori.

Come? Cosa? Chi?…

 
Su, ragazzi, siamo in Italia, no? Scendete dal ramo…
Gli autisti delle raffinerie, quelli che trasportano i carburanti, nella categoria autotrasporti sono quelli con il turn over più frequente: non so se è perchè rivendendo ciò che rubano riescono a ritirarsi prima a vita privata o se sono le aziende che li spostano per una forma di equa ridistribuzione della ricchezza, fatto sta che durano poco, un po’ come i Finanzieri, che vengono spostati quando il tenore di vita diventa imbarazzante se associato a una divisa.
Qualcuno dice che tirino via il carburante e rabbocchino con l’acqua ma io non ci credo: considerato che lo fanno tutti, tutti i giorni, nelle cisterne dei distributori dovrebbe esserci molta più acqua che carburante; penso, piuttosto, che facciano un carico maggiore del dichiarato, dando qualcosa sotto banco al collega responsabile del serbatoio.
E siccome prima o poi i conti li deve fare anche quello del serbatoio, credo che tutto parta dalla stessa raffineria, dalla stanza dei bottoni: d’altronde, con un prodotto tassato al 300%, c’è margine per tutti.

Comunque sia, conosco un sacco di gente che si rifornisce così e se ne vive tranquilla con una dozzina di taniche di benzina o di gasolio in garage: io mi sentirei come il Dottor Stranamore, a cavallo della bomba nucleare.
E anche mettersi in garage con un fustino in braccio e versare benzina in un imbuto non mi sembra il massimo della vita, risparmio o non risparmio.
Io vado da Gabriele.

Avrei anche un altro “mah…”, che non c’entra niente con i carburanti.
Nei termini di ricerca che hanno portato qualcuno su queste pagine, ho trovato un “cazzi doppi per inculare gli uomini”.
Va beh, i gusti sono gusti.
Ma quanti uomini con due buchi del culo ci saranno?

Meglio farsi un po’ di sangue buono: visto che i musicals non vi fanno schifo, vi propongo questa perla di Mel Brooks, dimostrazione che con un po’ di cervello si può fare un buon musical anche in epoca recente; la citazione/tributo ad Esther Williams, poi, è magnifica.

Dottordivago

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Per la serie “il programma lo fate voi”, ringrazio tutti coloro che mi danno una mano ad alzare il livello di stupidità de Ilpandadevemorire:

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Sonica,

commentando il post su Bimbi, ha piantato la bandierina sul commento n° 3000.

In suo onore, in quanto musicofila, ed in omaggio a Bimbi, di provenienza valdostana quindi di lontana cultura celtica, vi offro mezzo minuto di leggerezza irlandese, uno dei miei incoffessati guilty pleasure, roba molto diversa da quella che ascolta Sonica.

Io ascolto dai Linkin Park a Topo Gigio ma se c’è una cosa che adoro, sono i musicals.
Non quelle cazzate noiose di oggi: parlo di roba del calibro di Fred Astaire e Ginger Rogers, magari con le coreografie di Busby Berkeley.
Roba che ti stampa il sorriso sulla faccia.
Prima o poi ve ne parlerò.

Quello che segue è il finale di “Darby O’Gill e il Re dei folletti” (Disney 1959), titolo originale: “Darby O’Gill and the little people”.
Una ragione in più per dargli un’occhiata è un giovane Sean Connery che sfoggia una voce niente male, oltre ad una presenza che se io, a quei tempi, fossi stato al mondo e fossi stato una donna, pur di dargliela in qualche modo, gliela avrei mandata per posta o tirata con la fionda.
Infatti, la co-protagonista Janet Munro, forse non gliel’ha data quando ce l’aveva a tiro, resta il fatto che è morta alcolizzata a 38 anni, povera…
Anche se dall’aria sveglia che sfoggia, mi sa che anche a quei tempi non disdegnava un goccetto…

E visto che con brani come “Pretty Irish Girl” se li canticchiate vi divertite di più, un po’come leccarsi le dita coi Fonzies, uno stranamente zuccheroso Dottordivago vi passa pure il testo:

Oh, she’s my dear, my darlin’ one, her eyes so sparklin’ full of fun
No other, no other, can match the likes of her

ripete lei al maschile, poi, insieme:

She’s my dear, my darlin’ one, my smilin’ and beguilin’ one
I love the ground she walks upon, my darlin’ Irish girl

Anzi, prima Sean solista, poi il finale:

Gente, dopo otto giorni di nebbia, finalmente oggi è nuvolo: non vediamo il cielo ma almeno vediamo i palazzi.
Ieri da casa mia si vedeva solo la ringhiera del balcone.
Un momento allegro e spensierato così mi ci voleva proprio.

Dottordivago

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Per una volta vorrei fare la persona seria e dire due parole sul meraviglioso romanzo di Johann Wolfgang von Goethe.

Ma no, và: sarei tentato ma… magari un’altra volta.
Però, giusto per non sprecare un bel titolo…

Ho conosciuto Bimbi nel 1985, al mare, e non ci siamo cagati quanto eravamo lunghi.
Ci siamo rivisti, sempre al mare, l’anno successivo: ed è scoccata la scintilla o, come diceva Vito Catozzo, è scattata la malvasìa.

Dunque, come dico spesso, le cose, semplicemente, accadono.
Se noi avessimo immesso le nostre caratteristiche ed i nostri gusti personali nel computer delle moderne agenzie per Cuori Solitari, oggi lei sarebbe sposata con un Siberian Husky o, visto che non le piacciono i maschi pelosi, probabilmente con il padrone dell’Husky, come minimo un biondo scandinavo che scende dalla slitta solo per partecipare alla Vasaloppet.  
Io starei con una bella napoletana rotondetta ed amante della cucina, dopo aver divorziato da una ballerina di Las Vegas o, visto che allora ero molto più underground, da un’artista concettuale stanca di prendere delle botte dalla mattina alla sera: nella mia vita non ho mai alzato un dito su una donna ma un’artista concettuale potrei gonfiarla come una zampogna, tutti i giorni, prima e dopo i pasti.

Due cose hanno contribuito a far sì che ci rivolgessimo la parola: lei era una bella gnocca e per me, al momento, era sufficiente; io ero un mezzo bandito, anche se gentiluomo, e a lei, per una storiella balneare, la cosa non dispiaceva: mi ha confessato, proprio qualche giorno fa, che quando andava a scuola si era beccata un cazziatone dalla nonna che le aveva trovato una foto di Vallanzasca sul diario.
Per sicurezza, ogni tanto le domando se vado ancora bene, adesso che sono un onesto lavoratore…

Evidentemente, oltre a queste ridicole affinità c’era qualcos’altro, così, lei di Aosta + io di Alessandria = sei anni da pendolari dell’ammore.

Come succede a 999 coppie su 1000, l’uomo si adatta e si abitua, la donna comincia a scalpitare; così, una domenica mattina di giugno 1992, mentre facevamo colazione, lei mi dice: “Sai, pensavo… dopo le vacanze… se io mi fermassi qua?”
”A far cosa?…”
Ad abitarci, cretino…”
”Ah…”
Io con Bimbi ci stavo benissimo; me ne rendevo conto, visto che i momenti in cui mi mancava maggiormente erano proprio i periodi che seguivano una vacanza insieme: chiunque si sopporta per un week end, mentre la convivenza spesso sfinisce e divide molte coppie; e se a noi succedeva il contrario…

Solo che io avevo passato un terzo della mia vita un giorno qua e un giorno là ed il pensiero di mettere su casa…
Probabilmente c’è stato un momento in cui quel boccone di colazione si è trasformato in un riccio di mare e devo averci messo un attimo in più del solito per deglutirlo.
E ho visto l’accenno di un’ombra negli occhi di Bimbi.
In realtà, in quell’attimo, io stavo prendendo i souvenir di una parte della mia vita e li stavo mettendo in un baule, per portarli nella cantina della mia memoria: insomma, stavo preparando il posto per Bimbi.

Ma a quel punto un “Sì, certo, perchè no?…” non sarebbe stato sufficiente a fugare quell’accenno di dubbio che le stava nascendo dentro, così ho rilanciato: “Beh, già che ci siamo… sposiamoci…”
Lei ha sgranato gli occhi, così mi sono sentito in dovere di sdrammatizzare: “Anche perchè, se ci mettiamo a convivere, nessuno ci regala un cazzo…”

Cinque minuti dopo, con un calendario in mano e la sensazione di avere un po’ di farfalle nel cervello, stavamo decidendo la data: 12 settembre, neanche tre mesi dopo, manco si trattasse di un matrimonio riparatore da celebrarsi nel minor tempo possibile.
Qualche giorno dopo, la data è slittata al 19 settembre, per un motivo di forza maggiore: dei primi venti ristoranti a cui ho telefonato non ce n’era uno disponibile per l’altra data; sì che poi hanno divorziato quasi tutti ma in quel periodo si sposava un mucchio di gente… 
Riguardo a dove celebrare il matrimonio non potevano esserci dubbi: rigorosamente a Cuccaro Monferrato, nella chiesa del mio grande amico, il Prevosto; d’altronde, quando da una vita sei cliente in un posto, mica puoi fargli le corna in un’occasione del genere…

Da quel giorno sono passati più di diciotto anni e vorrei passarne altri mille così.
Anche se quella donna mi ha rovinato.
Formato a sua immagine.
Plagiato.

Me ne sono reso conto domenica, al quinto giorno filato di nebbia (oggi siamo all’ottavo…), qui nel buco del culo del mondo, mentre Bimbi era a sciare al sole della Val d’Aosta e in Liguria la gente era svaccata in spiaggia, in maglietta.
Ho girato il mondo ma resto comunque alessandrino, quindi con la nebbia nel sangue e, spesso, nel cervello: ovviamente non mi è mai piaciuta, la nebbia, però c’è sempre stato un rapporto di buon vicinato.
Adesso, dopo anni passati a sentire le madonne che Bimbi tira dietro a “’sta nebbia di merda…”, il suo pensiero si è fatto strada come una goccia nel granito e se non vedo al più presto un raggio di sole, dovrò farmi prescrivere degli antidepressivi: mi faccio forza pensando che fra due settimane si parte per il Brasile.
Tranquilli: nel soleggiato Nordeste, a più di duemila km di distanza dalle piogge torrenziali ed assassine di questi giorni.

Altra forma di plagio: io sono sempre stato un merdone felice.
E per niente schizzinoso: nei villaggi dell’Africa del sud mi bevevo la busaa, birra di miglio o mais, con la consistenza di un frappè, tiepida, magari offerta in una mezza zucca in cui oggi non metterei neanche le crocchette per il cane, non tanto per il bene del cane, più che altro perchè mi farebbe schifo prenderla in mano.
In Oriente ho mangiato polipi neri, che diventavano grigi quando lo chef li recuperava per cucinarli e le mosche volavano via: oggi, se un cliente mi propone “Prende un caffè?” e la casa non è pulita da sembrare quelle delle pubblicità, rispondo “Grazie, l’ho preso cinque minuti fa…”

Tutta colpa di Bimbi.
Bimbi non ha un’attività biologica apparente, non ha un odore proprio, come Jean-Baptiste Grenouille: se la rapissero o se finisse sotto una valanga, il nasone dei bloodhound ce lo potremmo mettere nel culo, per quello che servirebbe…
In compenso le sono concesse cose vietate a noi umani: può andare in palestra all’ora di pranzo e andare in ufficio lasciando la roba sudata nella borsa, con la certezza, alla sera, di aprirla e vedere svolazzare fuori petali di rosa; se lo facessi io, l’unico in grado di aprire la borsa sarebbe un medico della Morgue.
Questo la porta a pretendere che il resto del mondo sia come lei.

A me è capitato, raramente ma è successo, di dormire in veri e propri merdai e di fare una tirata di sette/otto ore di sonno; dopo la cura-Bimbi sono diventato un caga-amaretti: nella mia borsa c’è sempre un piccolo botticino d’alcol per dare una passata al water dell’albergo, se lo ritengo necessario.

Una decina di anni fa, per Capodanno, con alcuni amici abbiamo passato qualche giorno a Cadaques; al ritorno abbiamo deciso di allungare la vacanza di un giorno, a Nizza, così siamo finiti all’Hotel Mozart, consigliatoci telefonicamente da un amico a cui non ho mai più chiesto consulenze.
Tra l’altro, l’ho cercato un minuto fa su internet e non l’ho trovato: il tempo è galantuomo.
Un tre stelle dignitoso, ingresso piccolo ma ascensore spettacolare, tutto in acciaio inox e lucine che si rincorrevano: sembrava una macchina del tempo.
Lo era.
Più che al terzo piano ci ha trasportato nell’800: “Ma sì, dàì, per una notte…”
Una bella doccia prima di andare a cena; dispiego un asciugamano –più che altro lo apro come un libro, tanto era rigido e apprettato- e scopro che, insieme con l’asciugamano, hanno lavato, inamidato e stirato un ciuffo di capelli sufficiente per un’extension media.
Va beh, ‘tanto è roba pulita, meglio non dire niente a Bimbi, così faccio sparire le tracce nel water.
Esco dal bagno e Bimbi è esattamente come l’ho lasciata, vestita di tutto punto. Dovete sapere che è una cosa normale: io faccio la doccia in cinque minuti, tempo in cui Bimbi si sbottona il cappotto.
Però capisco che c’è qualcosa di strano: Bimbi è immobile e indica col dito la moquette; guardo e vedo un’unghia tagliata lunga un centimetro: mi sfugge un “Ma qui, c’hanno dormito o hanno smembrato un cadavere?”
”Perchè? Cosa hai trovato in bagno?…”
”Eh?… No, no, niente… dicevo così…”
Poi troviamo, ai piedi del letto, una cenere di sigaretta lunga quanto la sigaretta stessa: qualcuno si è addormentato con la sigaretta in mano, per fortuna sua col braccio fuori dal letto; a noi sarebbe convenuto che fosse andato a fuoco l’albergo, il giorno prima…

Quando siamo tutti pronti, nella hall, caragno con la proprietaria, che promette di sistemare tutto, anche se con poca convinzione.
Naturalmente anche i nostri amici, tre coppie, hanno trovato qualcosina che non andava ma sorvolano.
Cena, passeggiata e nanna.
Cena e passeggiata per tutti, nanna per gli altri: Bimbi è così schifata che riesce a condizionarmi e va a finire che dormiamo vestiti, senza coprirci, il che, sommato al letto piccolo alla francese, Dio li maledica, ed al cuscino a salamone alla francese, il Diavolo se li pigli, fa sì che riusciamo a mettere insieme qualche pisolino di cinque minuti.
Al mattino siamo due stracci; i nostri amici, che non sono principesse sul pisello come noi, sono belli freschi e lucidi come pavoni.
Da quella volta ho detto a Bimbi che se mai si fosse ripetuta una cosa simile, lei sarebbe stata zitta o avrebbe cambiato albergo.
Lei, ovvio: io, senza condizionamenti, posso ancora dormire abbracciato a un cinghiale.

Mi scappa una breve divagata.
Devo dire che casa mia è pulitissima ma non quella pulizia maniacale fatta di pattine sotto i piedi e cellophane sui mobili, per carità, magari puoi trovare anche un velo di polvere; ma dove serve, fidatevi, potete fare la prova del guanto bianco.
Mi capita di cucinare spesso a casa di amici e sulle manopole del gas è fisiologico trovarci un velo di unto, una cosa impercettibile, me ne accorgo solo io, visto che sono abituato a casa mia, dove le manopole fanno il rumore dei piatti appena lavati.
Diciamo che Bimbi è una via di mezzo tra una pulitrice normale e una disinfettatrice di ferri chirurgici, tipo sua madre; anche lei non ti costringe a vivere con le pattine, a casa di mia suocera sto bello rilassato come a casa mia: lei ti lascia sporcare poi, appena ti distrai un attimo… Zac! 
Quando ti rigiri scopri che ha già ripulito tutto!
Solo una cosa non ho mai perdonato a mia suocera: il coprilavatrice.
Tempo fa, entro in bagno e vedo al posto della lavatrice un monolite fiorato: avete presente le orrende tovaglie di plastica? Ecco, solo che questa era fatta su misura per la lavatrice, con le sue belle cerniere per liberarla da quella specie di pianta carnivora che l’avviluppava.
Ora: in bagno, c’è qualcosa di meno esteticamente invasivo di una lavatrice bianca bella lucida?
Non esiste, vero?
E allora, perchè coprirla con quella schifezza? Ovviamente, in quanto domatore ufficiale di mia suocera (sono l’unico in famiglia che, qualche volta, riesce ad averla vinta…), le ho spiegato che nella lavatrice rimane sempre un po’ d’acqua e se la macchina respira, è meglio; non ottenendo risultati, l’ho presa per il culo fino allo sfinimento, mio, non suo, visto che ha mantenuto quella bestemmia floreale.
Salvo buttarla via non molto tempo dopo, insieme alla lavatrice che era diventata un blocco di ruggine…

Alcuni condizionamenti a mio carico a Bimbi non sono ancora riusciti, tipo farmi andare piano in macchina: non sono mai stato un pirata, magari un momentino turbotarro sì ma adesso, visto che gli anni passano per tutti, ho quella che si può definire una guida brillante ma fluida e non intendo diventare uno dei tanti Mr. Magoo che si vedono in giro.

Ed io, a lei, cosa ho passato?
Diciamo che le ho smussato qualche spigolo, se la prende meno per certe cazzate.
Sicuramente le ho inculcato il gusto per la buona tavola: una volta, per lei, il cibo era poco più che un fatto di sostentamento, oggi apprezza le cose buone e se qualcosa non va, ha un naso e un palato che non perdonano.
Ha perso anche un brutto vizio: era gelosa al punto che, in confronto a lei, Otello era uno scambiatore di coppie.
Ma se oggi non minaccia di azzannare alla gola una che mi chiede che ore sono, non è per merito mio, anzi, probabilmente è colpa mia: mi sa che non sono più il bel bocconcino di una volta…

Dottordivago
P.S. Mi sono accorto adesso che siamo al commento n° 2999:

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Chi si becca il 3000?

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cattiveria Comincio a credere di essere cattivo.
Dentro di me ci deve essere una cattiveria… una cattiveria talmente cattiva da diventare cattiverìa.

Sto alla solidarietà come le banche stanno ai prestiti ed è risaputo che le banche prestano soldi solo a chi può dimostrare di non averne bisogno (risparmiatevi gli applausi: l’aforisma non è mio…)
Cosa intendo dire? Ve lo spiego subito.

Vedo le immagini dal Brasile, quelle che mostrano colline sciolte dalle piogge e centinaia di cadaveri, vedo poveri disgraziati che già non avevano niente e quel niente gli è stato portato via.
E sento che non mi dispiace come sarebbe giusto.
Non ho detto “Sono contento”, di sicuro non mi metto a ridere ma sento che è un dispiacere che si ferma sulla pelle e scivola via, non mi prende dentro.
Poi vedo le lacrime di una donna, in divisa da Bombeiro, che piange la morte di un suo collega, travolto da un’ennesima frana mentre portava soccorso: in questo caso accuso il colpo.

I 250.000 morti del terremoto di Haiti hanno trovato poco spazio nei miei pensieri, molto meno di quella poveretta senza alcuna colpa, ammazzata di botte da un delinquente ucraino, a Milano, mentre andava a lavorare.

Poi c’è quella gigantesca macchina da sfighe che è l’Africa: vediamo disgrazie, epidemie, carestie…
Probabilmente voi rimanete colpiti, io no.
Poi, se precipita un aereo, che so, in Cina, e vedo il pianto disperato dei parenti, allora mi intristisco e mi vengono i brividi al pensiero di essere al loro posto.

Con tutto ciò, facendo corna e toccatine, se mai dovesse capitarvi una sfiga o una situazione d’emergenza, pregate di avermi vicino, visto che sono uno di quelli che si sbatte davvero.
Però, quando la sfiga si accanisce su determinate categorie di persone, mi sento meno coinvolto: se i mazzuolati dalla sorte sono persone che sono in mezzo a una strada da millenni… ecco, come dire… mi viene da pensare che sfiga più, sfiga meno…
Non pretendo di aver ragione, tutt’altro, vi sto solo coinvolgendo in una mia riflessione, promossa dalla telefonata odierna di Diego, un amico di Milano, colui che mi considera l’Uomo più Cattivo del Mondo.

Diego è un tipografo ed era mio vicino quando avevo l’esposizione di serramenti a Milano.
Ci scambiavamo frequenti visite: a una certa ora del mattino, lui passava dal baretto che c’era tra la mia vetrina e la sua, ordinava due caffè e ce li bevevamo da me; di pomeriggio si invertiva il giro.
Per lui il mattino era un incubo: quasi tutti i giorni riceveva la visita di un suo “amico”, come dicevo io per farlo incazzare: era a malapena un conoscente e Diego ignorava la causa scatenante di questa conoscenza; ricordava solo che ‘sto tipo, mai visto, un bel giorno ha iniziato a salutarlo mentre si fumava una sigaretta sulla porta della tipografia, poi aveva cominciato a fare due chiacchiere, fino ad arrivare ad essere una turgida e dolorosa emorroide. 

Abitava dalla parte opposta di Milano ma lavorava (pardon: prendeva lo stipendio) in una qualche struttura comunale lì intorno; visto che non sapeva spiegare quale fosse il suo incarico, veniva trasferito molto spesso, affinchè non fosse così palese il furto di stipendio.
E l’ennesimo trasferimento l’aveva portato nella nostra zona.
La sua sudata giornata lavorativa finiva alle due, quindi di pomeriggio tornava dalle sue parti ma al mattino era una specie di ronda di quartiere: finita la Gazzetta, andava a zonzo a rompere il cazzo a tutti.
Diego non lo gradiva un gran che ma, per sua sfiga, è anche la persona più gentile del mondo: era uno di quei casi inspiegabili in cui uno si crede una specie di fratello di sangue e l’altro, per educazione, sta al gioco.

Io non lo potevo vedere.

Sono un esteta e condivido con Oscar Wilde il pensiero che “alla bellezza si può perdonare tutto”.
Considerato che il personaggio era alto (più che altro basso) un metro e quarantacinque, ovviamente senza colpe, ed era pure un laido parassita obeso (e qui qualcosa di suo ce lo metteva), mi sarei sentito di caricare sulle sue spalle tutti i peccati del mondo. 
Se poi, nel prezzo, ci mettiamo anche che era decisamente malforgiato, infatti aveva le braccia più corte di quanto avrebbero dovuto essere, circa quaranta centimetri anzichè cinquanta, praticamente due cotechini che non so come gli permettessero di prenderselo in mano per pisciare, il quadro è quasi completo.  
Dico “quasi” perchè bisogna aggiungere che era pure gramo come la tosse e ne aveva sempre una per tutti.
Per completare il quadro, ci sarebbe anche da dire che si trattava della persona più noiosa del mondo: parlava solo delle sue sfighe e, ringraziando la Madonna, gli spunti non gli mancavano.
In fondo in fondo, al Diego faceva pena, a me no: un tipo così ha il dovere, almeno, di essere un pezzo di pane, non un pezzo di merda.

Per fortuna io avevo poche occasioni per succhiarmelo: ci aveva provato anche con me ma… vi ricordate cosa ho detto di Diego?
Ecco, io sono diverso: alla seconda visita gli ho spiegato che, se mai un potenziale cliente avesse tirato dritto credendomi impegnato con lui, io gli avrei mangiato il cuore.

A volte, visto il mio (allora) recente passato di autore di testi tv e pubblicitari, Diego mi scroccava qualche consulenza per la realizzazione di depliant o inserti, così, un mattino, mi sono ritrovato a parlare di “lavoro” con il mago dell’inchiostro.
A quei tempi, sia io che lui, fumavamo come l’incendio di una catasta di copertoni e nel suo ufficio vedevamo a malapena uno la faccia dell’altro; ad un tratto si apre la porta sul cortiletto e l’Orrendo si manifesta.
”Madonna… che fumo!…” e rimane mezzo dentro e mezzo fuori, con la porta spalancata.
”Chiudi che fa freddo!…”
”Figurati… Qui dentro mi fate soffocare…”
”E allora vai sul lago a respirare un po’ di aria buona…” gli dico spostandolo di mezzo metro e chiudendogli la porta in faccia.
Non faccio in tempo a sedermi che la cosa si ripete: porta spalancata e quella porcheria davanti agli occhi.
”Il padrone cosa dice?” 
Ho visto Diego leggermente imbarazzato, così ho fatto ricorso alla diplomazia: “Prima che il padrone dica una parola, io ho già iniziato a prenderti a calci: o dentro o fuori…”.

Dentro, porca troia.
E ha dato subito la stura al suo personale Vaso di Pandora.
Dovete sapere che l’Immondo aveva anche trovato moglie: per farlo era stato necessario un viaggio in Thailandia, dove aveva conosciuto un immenso mucchio di letame di donna che condivideva con lui la non appartenenza alle forme di vita conosciute.
Detto-fatto: tornato a casa le ha mandato i soldi per il biglietto solo andata Bangkok/Milano ma il fiorellino ne ha chiesti di più, con la scusa che “i biglietti per i locali costano il doppio”…
Non era una balla integrale; i biglietti per i locali costano il doppio se i locali sono due: infatti sono arrivate madre e figlia dodicenne, altro organismo basato sulla chimica del silicio, anzichè del carbonio come noi.

Così attaccava sempre dei pipponi interminabili sul fatto che se avesse saputo… che un conto è una donna che si trova un lavoro… che tiene a posto la casa…che una figlia adolescente è un esborso continuo… che tu non sai quanto costano i libri…
Poi dava una botta di “Coglione” al tale e una di “Sfigato” a un altro…
E che, comunque, le donne sono tutte puttane.
A me, normalmente, cominciava a fischiare il vapore dalle orecchie come a Braccio di Ferro; quel giorno non so se ero particolarmente malmostoso o se mi ci aveva fatto diventare lui: “Più che altro, sono tutte puttane quelle che trovi in un bar di Pattaya…”
”Ma sì… mi ha fatto pena… cosa dovevo fare?”
Non ci potevo credere: faceva pure il fenomeno!

“Te lo dico io cosa dovevi fare: dovevi nascere bello, come me, e sposare una gnocca, come farò io a breve…”
E me ne sono andato.

‘azz’!…

Dopo un quarto d’ora arriva il Diego da me: “Fighi… (non diceva mai figa in modo palese e, se proprio sbroccava, poteva arrivare al massimo a porca trota…) fighi… se te se’ catìv…”
E mi ha raccontato che lo Scrondo è rimasto dieci minuti in assoluto silenzio, fissando il piano della scrivania, finche un imbarazzatissimo Diego gli ha detto che… gli spiaceva… ma… doveva proprio rimettersi al lavoro…
Se n’è andato, catatonico.

Non si è fatto vedere per qualche giorno; poi “Radio” Alba, la barista plenipotenziaria dei pettegolezzi del quartiere, che portava i caffè negli uffici dell’Immondo, ha detto che si era intossicato di farmaci.
E Diego ha iniziato a dire a tutti che aveva tentato il suicidio per causa mia, cosa che lo divertiva parecchio.

Stamattina mi ha telefonato, dopo un paio d’anni che non ci sentivamo, per dirmi che l’Immondo è morto qualche tempo fa: “…Ecco perchè era un po’ che non lo vedevo…”
”Ma come… lo vedevi ancora?”
Si era affezionato, lo Scrondo: l’avevano regolarmente trasferito alcune volte –hai voglia… da quel giorno sono passati quasi vent’anni…- ma almeno una volta alla settimana passava per un saluto ad un “amico”…
”Diego, l’hai sopportato vent’anni!”.
Mi ha risposto che è colpa mia, che me ne sono andato pochi mesi dopo la sparata: se l’avessi incrociato ancora un paio di volte, sarebbe sparito dalla  circolazione.
Però si ricordava ancora di me.
Tutte le volte diceva: “Chissà che fine ha fatto, quello stronzo del Barbetta…”

Stronzo e cattivo.
Ma, per adesso, vivo.

Dottordivago

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Vendo titoli

NEWS_1241454761_berlusconi_corna Berlusconi ha dichiarato di avere una relazione fissa e di non aver mai pagato una donna per fare sesso.

Ho già pronto lo strillo per la prima pagina di “Repubblica”:

Berlusconi sta con un trans!

Primo commento a caldo da Marrazzo: “Buongustaio”

Dottordivago

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dolce al cucchiaio Parlo del mio cervello.

Detta così fa schifo ma, se provassi ad usare a fondo un cotton fioc, credo che lo troverei sporco di creme caramel o di panna cotta.
Al limite un bunet piemontese o un dulce de leche ma, sicuramente, niente di più consistente: ho un budino nella scatola cranica, una bavarese tra un orecchio e l’altro, un lobo di mousse ed un altro di panna montata.

Ho passato un autunno ed un inizio inverno che, come diceva Totò in “Totò e Peppino divisi a Berlino” quando voleva esprimere un’iperbole

Ho attraversato l’Alto Adige!…

e questo significava averla fatta fuori dalla tazza, un vero uovo da due, anzi, da tre rossi.

Ecco, io, lavorativamente parlando, ho attraversato l’Alto Adige, ho diviso il Mar Rosso e, novello Titano, ho sorretto il mondo sulle mie spalle.
Ora ricomincio a tirare il fiato, ho ripreso a dormire dignitosamente di notte e… volete sapere l’ultima?

Sono completamente rincoglionito.

Oggi, sabato, è stata una giornata tranquilla; i ragazzi dovevano finire un lavoro semplice e a mezzogiorno erano già tornati a relazionarmi, quindi oggi pomeriggio ero lì, in esposizione, sergissimo: meta gennaio non è esattamente il periodo in cui la gente si ammazza per ordinare serramenti, se Dio vuole.

Micro divagata: sergissimo sta per “molto Sergio” e questa è roba di modernariato, epoca fine ’70/inizio ’80.
A quei tempi c’era una piccola discoteca, in Alessandria, che si chiamava Playback: oggi è un merdaio riservato a scambisti (di coppie) ed ogni volta che ci passo davanti mi viene il magone.
Ah… Trombatori-di-mogli-altrui-mentre-altrui-spazzola-il-camino-a-vostra-moglie, non dannatevi a cercare “Playback Alessandria”: ha cambiato nome.
Quel posto era veramente una mini discoteca e funzionava solo e rigorosamente in inverno, quando nebbia o neve sconsigliavano trasferte e scoraggiavano i notoriamente centrifughi discotecari Alessandrini.
Ci sono stati dei sabato sera dal clima infame in cui là dentro la gente stava a castello come i letti a militare; per contro, tolte quelle poche sere, per tutto il resto dell’anno non c’era un’anima.
Mai.
A parte Sergio.
Era il padrone, probabilmente l’uomo con la moglie più ripugnante o stronza del mondo, non c’era altra spiegazione: questo tutte le sere partiva da Torino con la macchina, veniva in Alessandria, apriva il locale e accendeva la musica a basso volume; poi, seduto su un pouf, fissando il vuoto, si fumava un pacchetto di sigarette bevendo mezza bottiglia di Johnnie Walker.
Verso mezzanotte tornava a casa.
Tutte le sere.
Per noi era quasi una tappa fissa: passavamo di lì, dicevamo educatamente “Ciao Sergio” e ce ne andavamo, per poi rotolarci per terra dal ridere appena usciti.
D’altronde non vi ho mai nascosto di essere un mezzo deficiente…
Da lì è nato il modo di dire “Sei solo come Sergio” oppure “Me ne sto solo come Sergio”, da cui la contrazione “essere Sergio” o, in casi da suicidio, “sergissimo”.

A parte una famigliola entrata con buone intenzioni, in negozio ero sergissimo.
Il Cigno direbbe: “E quindi?”
Quindi scriviamo due troiate.

Sull’harware siamo a posto: tastiera lucida, mani con le dita che sfarfallano come fanno le donne dopo essersi date lo smalto sulle unghie, qualche piccolo movimento tipo micro-stretching con collo e spalle…
Sono fisicamente pronto.
Ma il cervello non parte.

Film già visto: mi basta scrivere una frase, una qualunque, poi una parola tira l’altra, poi una divagata ed il risultato lo conoscete: quando scrivo, il cervello spesso non mi serve.

Niente: manco la fatidica prima riga.
FIAT… Berlusconi… Tunisia…
Naaa… non mi va.
Blimblàno un paio d’ore, poi casa, doccia e cena con qualche amico, visto che Bimbi è andata a sciare.

Mi limito a tre Beck’s ed una Sambuca: in settimana ho saputo di un amico che, fermato dalla Giusta bello pieno, si è beccato il multone, il sequestro della macchina, qualche mese di deposito a settanta euro al giorno ed una serie di esami mensili insieme a tossici ed alcolizzati cronici.
Poi si è ricomperato la sua Golf all’asta giudiziaria (“Ma ti conveniva?” “Beh, sapevo di chi era…”), la parcella dell’avvocato: il tutto per un totale di circa 25.000 euri.
Una volta, con quei soldi, ci inciuccavi la Polonia.

Mi sa che rinuncio a continuare la serata a casa di amici e mi avvio lentaaaameeeente a casa con i miei -stimati- sei/settecento milligrammi/litro di alcol nelle vene.
Lentamente ma con un briciolo di goduria; complice la nebbia che ci rompe i coglioni da tre giorni, le poche auto in circolazione e l’asfalto viscido, tolgo il controllo di trazione e metto la macchina di traverso in un paio di rotonde: come si può vivere senza trazione posteriore?

E quello, a livello di impegno psico-fisico, è stato il momento clou della giornata, tanto per dire…

Rincaso: ogni tanto è bello essere soli, se sai di non esserlo veramente.
Accendo il computer?
Ma sì: guardo “ilmeteo.it” e, se domani mi gira bene, tiro su due stupidi e vado a Genova a vedere come è fatto il sole.

Oggi pomeriggio, in preda al blocco, mi sono letto i blog degli amici; tra gli altri, Anchecheno mi gratifica con una ventata di pensiero positivo: sta lavorando come un pazzo ma si sente carico come una sveglia.
Quasi quasi rimpiango le settimane scorse in cui avrei avuto mille spunti per scrivere ma non avevo un minuto libero…
La solita storia del pane e dei denti.
O, più probabilmente, la storia che il cervello va sollecitato e tenuto attivo.

Poi leggo il commento della Niki che, dopo aver letto il post del bisso e del kopi luwak, mi dà dell’acculturatore di masse, l’adulatrice.
Non l’aveva ancora letto?
Eppure, come ho dichiarato, era il copia/incolla di un vecchio post.

Così faccio 1+1: nel caso perdurasse il blocco da cervello al cucchiaio, leggetevi la roba vecchia, visto che non l’avrete mai fatto.
Tolti i primi post “per prendere le misure”, va a finire che il meglio è proprio lì: erano tempi in cui dovevo darmi una regolata per non scrivermi addosso, per non mischiare due post alternando una riga di questo e una riga dell’altro.

E mò guarda cosa passa il convento…

Dottordivago

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