Tornando alle bugie di mia mamma, quelle legate al cibo e al conseguente aumento di peso, hanno fatto letteratura, in famiglia, alcune hanno fatto storia.
Solo io –e solo dopo una certa età- potevo mettere in dubbio quanto raccontava e salvare la pelle: mio padre se ne asteneva per evitare di farsi cavare gli occhi con una forchetta da escargot, mia sorella se ne asteneva per un fatto di intelligenza, comprendendo che non serviva a niente, io non me ne astenevo per il fatto di essere una testa di cazzo.
Un ricordo indelebile della mia giovinezza era vedere mia madre che si preparava per uscire. Un classico era vederla con una gonna di cui lei tirava la cintura con un dito, infilandoci platealmente quattro dita dentro e affermando: «Va’, ho fatto questa gonna l’anno scorso e adesso ci passano quattro dita…», a sottolineare quanto si fosse sciupata nell’ultimo periodo.
Ho scritto “fatto” in corsivo non a caso: lei era realmente capace di farsela, una gonna, un po’ perchè figlia di sarta, un po’ perchè, altrimenti, avrebbe dovuto pagare una confezione su misura, dal momento che al suo girovita sarebbe dovuta corrispondere un’altezza di tre metri, tre metri e mezzo, cosa che troncava sul nascere ogni discorso di pret a porter.
Ho taciuto svariati anni poi, un giorno, di passaggio in casa tra un giro e un altro, Spartacus ha strappato le catene. Alla solita pantomima ho risposto con una domanda: «Ma’, sono trent’anni che ti stai consumando come una candela, anno dopo anno. Toglimi una curiosità: quando ti sei sposata, eri 400 chili, vero?»
Ricordo solo un “T’EI PROPI IN SEMO!” (“sei proprio uno scemo”, ndt), poi gli alti insulti, inframmezzati a validissime argomentazioni e fatti circostanziati, sono stati coperti dalle mie risate sguaiate e dal cuscino, sotto cui mi riparavo la testa.
Facciamo un passo indietro, di questa ricordo anche l’anno: la fine del 1980.
In quell’anno mia sorella si è sposata, il 2 agosto, proprio il giorno della strage di Bologna. Da brava maestrina di doposcuola, passava a salutare mammà tutti i pomeriggi, dopo il lavoro, così il distacco era meno traumatico e c’era la scusa per un te/caffè con due dolcini, fatti in casa o da terzi. E questo è un fatto.
L’altro fatto è che una sera, a cena finita, prendo il barattolo della Nutella, pieno pochi giorni prima ed ora tristemente sporco di virgole marroni sulle pareti, come certi cessi delle stazioni.
«Azz! Abbiamo fornito la merenda all’oratorio?»
«Ma smettila!… È Patrizia che passa sempre a fare merenda…»
«Mmm… tienila d’occhio, quella ragazza, il diabete è una brutta bestia…»
Entrambi sapevamo di cosa stavamo parlando ma la cosa è finita lì.
The Day After, il giorno dopo.
Ero appassionato di elettronica, ovviamente la parte riguardante la riproduzione sonora e l’alta fedeltà, motivo per cui ho rinunciato a tutta la figa dello “Scientifico” per “studiare da Perito”. Avevo anche il mio bel laboratorio casalingo, al piano di sopra della nostra abitazione, un piano lasciato tipo soffitta, che ci dividevamo io, il cane, il bruciatore del riscaldamento e tutta la frutta che era possibile mandare a male tra l’autunno e Natale.
Ecco, lo sapevo, mi scappa di divagare, anzi, mi tocca.
Alla fine dell’estate, da Cuccaro Monferrato, il paese natale di mammà, arrivavano tonnellate d’uva pregiata, tipo Moscato d’Amburgo, che oggi non è raro trovare a 6/8 euro al chilo, dal fruttivendolo. In quel solaio-laboratorio al piano di sopra, mia mamma tirava decine di metri di filo, a cui appendeva l’uva, perchè
l’uva mangiata a Natale porta soldi e salute.
Quella che a Natale ci arriva.
Purtroppo il clima di Alessandria non è esattamente quello secco e freddo delle Lofoten, che secca gli stoccafissi, nè quello secco e caldo della Sicilia, che asciuga l’uva per ‘u zibibbu.
Il clima di Alessandria è umido e una parte dell’uva iniziava ad ammuffire.
Memore della Guerra, la Regina di Bugie metteva in tavola, rigorosamente, quella ammuffita («Vuoi mica buttarla via?»), per dare tempo a quella buona di ammuffire nei giorni successivi e il ciclo si ripeteva fino ad esaurimento scorte.
Qualche tempo dopo arrivavano i cachi, che facevano la stessa fine, così, nel periodo di sovrapposizione dei due raccolti, in quelle stanze c’era una concentrazione di moscerini che la Mosquito Coast in confronto era Loano.
Anche lì ho dovuto aspettare di avere un’età che mi consentisse un confronto fisico; raggiuntala, un giorno ho buttato via alcuni secchielli di roba ammuffita, mi sono preso un miliardo di insulti ma dal quel giorno abbiamo iniziato a mangiare roba che non sembrava Ötzi, l’Uomo del Similaun.
Chiusa la divagata, torniamo alla Sorella Vorace di Nutella.
Il giorno successivo alla discussione su chi si scofanasse barattoli di Nutella, a metà pomeriggio, come al solito, saluto mammà ed esco dalla porta della cucina (avevamo due ingressi).
Merda! Ho dimenticato in laboratorio una cosa che dovevo dare a un amico. Rientro, nel frattempo mia mamma era andata in bagno, salgo la scala che dalla cucina portava al piano superiore ed inizio a cercare quella cosa dell’amico.
Ci metto cinque minuti buoni e quando scendo mi materializzo in cucina mentre mammà, che mi credeva già chissà dove, sta per addentare UNA FETTA DI TORTA FATTA DA LEI, RICOPERTA DI NUTELLA!
È rimasta paralizzata solo una frazione di secondo.
Poi ha allontanato di pochi centimetri dalla bocca quel fabbisogno calorico settimanale di una famiglia del Burkina Faso e con fare scientifico l’ha guardato, poi si è girata verso di me, con l’aria di chi sta riflettendo e mi dice:
«Volevo fare la prova se la mia Torta Sbattuta sta bene con la Nutella…»
«Ma’, non ti sacrificare, te lo dico io: la torta con la Nutella è buona, garantito» e me ne sono andato sghignazzando, lasciando la Regina di Bugie con l’unico boccone amaro, a base di Nutella, di tutta la sua vita.
Oddio, mamma, quanto ti voglio bene.
Ingoia, Dottordivago, stringi i denti, cow boy, dovremo pur finirlo, ‘sto post, no?
L’apoteosi gastro-masochistica di mia mamma è coincisa con il pranzo di Pasqua del 2001 o 2002.
Una successione interminabile di piatti, roba da far girare la testa.
Io e Bimbi ci guardavamo increduli: mia mamma stava facendo il bis di ogni portata, una cosa stupefacente.
Poi si parte coi dolci, almeno due o tre fatti in casa, più la colomba: io salto tutto quanto, mentre mammà fa onore alla cuoca, cioè sè stessa e assaggia tutto e tralascio di quantificare il concetto di “assaggio” della Regina di Bugie.
Finito?
No, c’è ancora una torta, “roba comprata”, espressione che in casa mia ha sempre avuto un significato negativo, roba di pasticceria, che nessuno tocca, nonostante i ripetuti incitamenti di mammà.
«Ma’, se non te ne vai, tu e la torta insieme, ti do una coltellata…»
L’ho delusa, si vede. Eppure, qualcuno dovrà pur assaggiarla, no?
La torta è decorata con un uovo di zucchero azzurro e rosa, a grandezza naturale di un bell’uovo di gallina.
Rullo di tamburi: mammà lo prende, lo guarda e, con l’aria di
è uno sporco lavoro ma qualcuno lo deve fare
SE LO FICCA IN BOCCA INTERO.
Rimane immobile, con la mandibola bloccata, per un minuto d’orologio; poi, la salivazione e la temperatura corporea cominciano ad aver ragione dello zucchero, inizia un movimento impercettibile che cresce fino a diventare masticazione, poi un sorso di spumante e una domanda: «Caffè?»
Il mercoledì successivo aveva programmato il check up annuale, le hanno trovato la glicemia di una meringata e da lì sono iniziate le diete e la terapia per il diabete.
Ma i medici non avevano capito un cazzo: il suo era un diabete psicosomatico, causato dallo stress, dovuto al dispiacere di aver venduto la casa al mare, cosa che non si è mai perdonata.
Mia mamma, la Regina di Bugie.
E la prossima volta vi racconto la vera ragione di questo nome.
Continua.
Dottordivago
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