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Archive for luglio 2016

Con un filino di preoccupazione, da un po’ di tempo mi ritrovo d’accordo con Gramellini, ulteriore sintomo che qualcosa nella mia capoccia non funziona come prima.

Impossibile scollarsi dagli occhi quel giovane del Minnesota freddato sulla sua auto da un poliziotto per un fraintendimento banale, e agonizzante in una pozza di sangue mentre dal sedile accanto la fidanzata riprende la scena col telefonino. Ha fatto benissimo, naturalmente, ma è incredibile che lo abbia fatto. E in quel modo. Con una lucidità che lascia ammirati e anche un po’ sgomenti. Riguardate il filmato che sta incendiando l’America nera. La donna vede il suo compagno riverso sullo schienale e un poliziotto che gli punta ancora addosso la pistola attraverso il finestrino aperto. Chiunque altro invocherebbe aiuto, abbraccerebbe il moribondo, riempirebbe di insulti il tizio in divisa, se la farebbe sotto. Invece Lavish Reynolds mette il telefono in modalità selfie e documenta l’omicidio in diretta su Facebook, rivolgendosi all’agente con calma apparentemente glaciale e chiamandolo sempre sir, signore. Come se fosse una reporter addestrata a filmare scene di guerra e non una normalissima ragazza a passeggio con il fidanzato. Come se per trasmettere un’emozione agli altri avesse rinunciato a viverla lei. Come se in quel momento fosse più connessa col mondo che con i suoi sentimenti.
Tra qualche tempo ce ne renderemo conto meglio, ma si è trattato di qualcosa di rivoluzionario. Qualcosa di intimamente legato allo stato d’animo dei neri d’America, che ormai escono di casa con lo spirito vigile di chi va in trincea, però anche alla trasformazione avvenuta in noi umani da quando ai quattro arti ereditati dagli avi abbiamo aggiunto la protesi del telefonino.

Come dargli torto?
Avevo già condiviso quest’indegnità su FB:

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Metti un gruppo di persone speciali, tipo i calciatori della nazionale più forte del mondo, l’Argentina. Metti che abbiano appena vinto una partita importante e mettili nello spogliatoio seduti fianco a fianco, spalle al muro sulla stessa panca, prova impressionante di cosa significhi essere una squadra. Una grande squadra: Messi, Aguero, Mascherano, Higuain.  
Mettili nelle condizioni di compiere un gesto che esprima la loro appartenenza a un gruppo di amici uniti dal medesimo intento. Un gesto urgente, da fare subito, prima della festa e persino della doccia. Metti che impugnino all’unisono la protesi esistenziale dello smartphone e vi sprofondino la testa per sapere cosa il mondo sta pensando di loro. Metti che nessuno parli, neppure al telefono: ciascuno in fondo perso dentro i fatti suoi, come cantava Vasco, con la differenza che la sua almeno era una vita spericolata. Metti che questa scena di multiformi solitudini, immortalata dallo smartphone del loro compagno Lavezzi, te ne ricordi una analoga vista al bar, sulla metro o magari allo specchio. E metti che all’improvviso capisci finalmente come siamo Messi.

Ora, di scritti di vario livello sull’abuso dello smartphone ne è pieno il web ed il mio scroto. Il punto non è ciò che fanno gli altri, lo sappiamo tutti, volevo solo dirvi come mi comporto io, caso mai a qualcuno avanzasse un briciolo di compatimento e volesse girarmelo, con tanto di scrollamento di testa del tipo “qui non c’è più niente da fare davvero”…

Lo smartphone non lo voglio, chiaro?
E per cominciare posso trovare svariate ragioni di ordine pratico/logistico.
Passo la giornata davanti a un pc e averne un altro in tasca non mi va.
Poi… “tasca”… Il mio Samsung a conchiglia sta nella quinta tasca dei jeans, uno smartphone no e, se ci sta, non serve a un cazzo, è talmente piccolo che non si vede niente.
Quindi tasca anteriore, con effetto “polenta sul torace per far maturare il catarro” sulla coscia, per non parlare di piegarsi per allacciarsi una scarpa.
Ed io odio i mocassini.
Tasca posteriore? Forse per gli altri può andar bene; per me, che sono svanito come l’acqua viscì (l’Idrolitina, per capirci), no, non va bene: la prima volta che mi siedo, me ne dimentico e lo piego in due come un libro.

Poi, il mio, quando cade, si separa come gli stadi del Saturno 5: telefono di qua, coperchio di là, batteria dove capita. Li rimetto insieme e “ragazzi giù il gettone, ricomincia il giro”.
Credo che lo smartphone sia molto più delicato e, con la mia sfiga, cadrebbe sempre come la fetta di pane spalmata di Nutella: l’avete mai vista cadere dal lato del pane? Quindi display kaputt, matematico.

Il mio telefono fa tre/quattro giorni di uso medio con una carica.
Ok, da questo momento potete iniziare a dire le vostre ragioni pro-smartphone.

Intanto non mi convincete, perchè, fondamentalmente, non voglio diventare dipendente da quella merda. Dalla guida dell’auto, visto che quel coso è mortale per chi messaggia guidando e per chi ha la sfiga di trovarselo davanti, ed è altrettanto letale per la conversazione con gli amici: c’è una cosa più ripugnante del vedere persone sedute allo stesso tavolo che non si guardano in faccia e si rivolgono la parola solo per condividere una foto o una “massima eterna” trovata su FB?

Sì, va bene, dipende da chi ce l’ha in mano, potrebbe valere quello che ho sempre detto per le armi, paragonandole alla candeggina: se ci pulisci il cesso, è la morte sua, se la bevi, è la morte tua.

E mò faccio la bella e mi salvo in corner con un bel “continua”…

Dottordivago

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E con questa abbiamo messo a posto anche Monsieur Lapalisse, però non si tratta di un’affermazione: è un avvertimento, roba tipo “istruzioni per l’uso”.

Vi ho spiegato come mi sento in questo periodo e parto solo perchè sollecitato, avviato “a spinta”, ma non garantisco il finale, potrei addirittura lasciare una parola a metà, se mi molla il nervo, ok?

Marco, amico mio, ho visto solo adesso il tuo commento/messaggio e me ne scuso.

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Brexit… cosa?…
Purtroppo ti risponde Carlo Gallia, il Dottordivago è momentaneamente ibernato.
E Carlo Gallia espleta solo attività vitali o indispensabili: riguardo le prime, dormo, mangio, bevo, piscio e cago; relativamente alle seconde, lavoro.
Punto.
Quando non faccio nessuna di queste cose, mi limito ad esistere.
So cosa mi succede intorno, non sono alienato, ho persino una parvenza di vita sociale, però non elaboro, non partecipo.

Ieri è successa una cosa abbastanza preoccupante.
Ero da un mio fornitore e chiacchieravo con il magazziniere, Beppe per tutti, Peppino per me, un caro amico. Mi raccontava di una consegna che ha fatto recentemente a Cannes, nella casa, o meglio, nel paese, tipo “Cannes 2”, che sta costruendo, per sè, un miliardario brasiliano.
Questo ha comprato il versante vista mare di una collina e lo sta riempiendo di dependance, hospitality, guest house, zone benessere e tutto quanto è edificabile a contorno di una specie di Taj Mahal o di Versailles che sarà la sua residenza. Uno scherzo da 200 milioni mal contati.
Peppino arriva lì e con il suo francese da “Noio volovan savuàr…” domanda dov’è la casa del tal Signor Pezzogrosso.
«È qui…»
«Qui dove?»
«Tutto quanto…»

E mentre Peppino racconta il suo stupore, il suo sentirsi uno stupido poveraccio, a me viene in mente una situazione simile, capitatami almeno trent’anni fa.

Succede che a Nizza mi riesce di spiegarla particolarmente bene ad una bella signorina di ottima famiglia, o di una famiglia di stronzi, non lo so, di sicuro carichi di soldi, proprio tanti soldi.
Finita la trasferta oltre confine, la storia continua per un paio di mesi, in cui vado a trovarla spesso, a casa sua.
Vive in una villa affacciata su un famoso lago, mi astengo volutamente dai particolari, e la prima volta mi dà appuntamento in città, dove si fa portare dall’autista e fa il suo giretto per negozi; quando arrivo, sale sulla mia macchina, dopo averla riempita di pacchi e sacchetti, il minimo di shopping giornaliero, e mi fa da navigatore.
Arriviamo a questa monumentale cancellata, svolto e percorro un viale dalle dimensioni, lunghezza/larghezza, del Cile.
«Mò che arriviamo… cambia la Provincia o è sempre la stessa?…»
«Vai avanti, scemo…»
Arriviamo dove il viale sfocia in una rotonda costituita da un giardino magnifico, al cui centro troneggia una villa Liberty di una bellezza che mozza il fiato.
«Porca puttana… se sei messa bene! Hai una casa fantastica!…»
E lei, molto Franca Valeri ne “Il vedovo”: «Giraci intorno, pirla, questi sono gli alloggi del custode e della servitù, casa mia è dietro…»
Mi ha risparmiato il “cretinetti” d’ordinanza, bontà sua…

Non continuo con la descrizione di casa sua, comunque la sensazione deve essere la stessa che provava chi si trovava di fronte la basilica di San Pietro, prima che esistesse Viale della Conciliazione: i vecchi romani raccontavano che uscivi dai vicoli e ti venivano le gambe molli, con il Colonnato e tutto il resto che si manifestavano di colpo.

Bene, ho raccontato tante volte questa storiella, ogni volta in cui si parlava di figure da straccione in situazioni aliene alla nostra realtà.
Ovviamente, mentre Peppino raccontava la sua, io ero pronto a partire con la mia, come si fa quando un amico racconta una barzelletta e te ne fa venire in mente un’altra, che non vedi l’ora di raccontare a tua volta.
Ecco, per la prima volta nella mia vita, mentre aspettavo il mio momento, mi sono detto:

…ma che la racconto a fare… non ne ho voglia…

IO!
IO HO AVUTO UN PENSIERO SIMILE!
Io, l’uomo con la più conclamata Sindrome di Roger Rabbit mai diagnosticata!
Io, il Dottordivago, “romantico cavaliere dal forte braccio, brillante ingegno e cuor di fanciullo”, io, il Cantastorie, colui che si è esposto a centinaia di figure dimmerda pur di raccontare una minchiata, qualcosa che facesse ridere gli astanti.

Eppure è successo.
Ovviamente io sto combattendo contro questa merda che mi gira nel cervello e mi chiude lo stomaco, quindi mi sono fatto violenza e ho raccontato la mia storia: monologo collaudato, successo garantito, nessuno ha notato la differenza rispetto al solito “Dottordivago, blogger per signora”.

Però è successo.
Quindi, capisci, Marcolino, perchè non parlo di Brexit?
So che c’è stata, milioni di parole e immagini dei tg mi sono scivolate addosso come acqua sulla roccia, mentre avevo gli occhi puntati sul televisore e il cervello da tutt’altra parte, durante il pranzo o la cena.
Non potrei dirti nulla di minimamente interessante.

Però… hai visto? Non ho finito la benzina.
Ti ringrazio e ti abbraccio, ti sarò sempre debitore per questa spinta e per quelle che seguiranno.
E rimangiandomi la dichiarazione iniziale di essere il supplente di me stesso, ho deciso di firmarmi comunque

Dottordivago

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