Siamo arrivati alle tre del pomeriggio di una qualsiasi giornata estiva nella “Casa dalle finestre che ridono (davvero)”, più o meno l’ora in cui la giornata tipo prendeva vita.
Così tardi? Ma se persino a Napoli, alle 11, hanno già iniziato a lavorare quasi tutti…
Calma, gente, stiamo parlando del profondo Piemonte degli anni 60, in un paese in cui non passava il treno, l’unico, vero lucifero (scritto minuscolo e in senso laico, inteso come “colui che porta e diffonde la luce”) prima dell’avvento della televisione. Vi ricordo che quella realtà era una pianta con le fronde nel tempo reale ma le radici nell’Ottocento, credetemi.
E nell’Ottocento, o quanto meno nella mentalità ottocentesca:
«la pagnotta si guadagna al mattino»
« il mattino ha l’oro in bocca»
« se a mezzogiorno non hai ancora guadagnato la giornata, non la guadagni più», frase che oggi ha più senso se messa in bocca ad una russa che è uscita dal night alle 6, col cliente ciucco e ingrifato.
Quindi il mattino era sacro, atavico retaggio di quando le donne iniziavano, prima dell’alba, a pensare con cosa sfamare la tribù, poi cercare, raccogliere, cucinare… Nonna e zia davano l’avvio alla giornata di buon ora; tanto per dare un’idea, io mi svegliavo presto, per essere un bambino in vacanza, diciamo prima delle otto. Arrivavo in cucina e mia zia era già tornata con la spesa di giornata e, soprattutto, il pane fresco.
Il pane era la mia colazione. Caffelatte col pane, fresco o niente, quello del giorno prima non lo volevo neanche vedere; in mancanza del pane fresco -poteva capitare che mia zia tardasse un po’- passavo alla seconda scelta, i biscotti, questo per darvi un’idea di cosa fosse il pane “della Rosa”, premiata fornaia del paese. Tranquilli, non intendo scassarvi la uallera con la descrizione di quel pane, limitatevi ad immaginare la cosa più buona del mondo.
Fatto? Naaa… non ci siete neanche arrivati vicino.
Tempi leggermente ritardati per gli uomini: ne parlo come farei per i Flintstones ma a casa mia non era necessario che mio nonno o suo fratello rincasassero con la famosa bistecca di brontosauro, non avremmo fatto la fame comunque, però alle otto del mattino l’attività in bottega era già avviata da un po’ e, probabilmente, non incominciavano prima per non sembrare “dei morti di fame che lavorano quando è ancora buio”.
Sì, perchè allora c’era un tempo per lavorare e uno per vivere, l’esistenza aveva un altro ritmo. Per fare un esempio, chi, per un’emergenza o altro, passava di domenica in tenuta da lavoro, col trattore o col bue, per andare nei campi, veniva guardato un po’ di traverso e il commento era sempre lo stesso: «Che gente, hanno proprio paura di morire di fame…»
Breve divagata.
Oggi non c’è più rispetto per gli orari e per la festa.
Datosi che, salvo rari giorni di sfiga, io tramando l’antica tradizione famigliare (sono “in causa” con la lingua italiana: se scrivo famiglia, scrivo anche famigliare, con la g) del pranzo a casa e della pennichella, spengo il telefono dall’una alle due e mezza, perchè il mondo non mi deve rompere i coglioni.
Prima lo spegnevo a mezzogiorno, per la corsetta quotidiana, adesso me lo porto dietro, non vorrei sembrare troppo smorbio. E poi, se mi chiama un sucaminchia, mi scuso per il fiatone e dico che sto scaricando un camion, se è una cosa interessante, mi fermo, se mai capitasse la chiamata di una gnocca, me la tirerei da grande atleta.
Be’, non avete un’idea di quante chiamate mi risparmio in quell’ora e mezza.
Ma soprattutto di quanto ci guadagno: sono certo che se un cliente mi chiamasse in quel momento, sarei sgarbatissimo, lo perderei.
E poi mi incazzo quando non riesco a spiegare ai miei uomini, moldavi o rumeni, che non si può andare a montare le finestre in casa di qualcuno, che ne so… l’8 dicembre o il 25 aprile, salvo che te lo richiedano espressamente, perchè è festa. «E che mi interessa… che festa è?»
«È la festa di San Clemente, non si rompe il cazzo alla gente…»
Vai a fargliela capire… Piuttosto che niente, vanno ad aiutare un amico, proprietario di furgone, che fa traslochi in nero.
Oh, non ci arriviamo a ‘sto pomeriggio, eh?
Insomma, il mattino era sacro. Che poi i ritmi non fossero frenetici non deve trarre in inganno: le donne si dividevano tra cucina, cura di conigli e galline, orto e lavoro vero e proprio (mia nonna era sarta), mentre gli uomini erano “passisti” della falegnameria, senza affanno ma senza perdere tempo.
Perchè la colazione di metà mattina, verso le nove, non era tempo perso.
Quella era Liturgia.
Pane con qualche fetta di salame o gorgonzola o con le acciughe o con “puvròn a moi” (“peperoni a mollo”, quelli sottaceto), magari una soma (pane sfregato con l’aglio e un pizzico di sale), il tutto accompagnato con vino rosso, che solo nelle giornate più canicolari lasciava un po’ di posto al bianco, nonchè un caffè e una cantatina.
Giuro, terminata la colazione, cantavano cinque minuti.
Viandante, fermati dove senti cantare: i malvagi non hanno canzoni
Continua.
Dottordivago
Questo post l’avrei sottotitolato “Tutta colpa della neve”.
Naaa… sto tornando, merdone, un passo per volta…
e io che t’immaginavo seduto sul divano, il portatile sulle ginocchia, con lo sguardo rivolto all’enorme finestra del soggiorno mentre la neve di marzo copiosa scendeva……
bello Doc. Attendo la prossima puntata
Anch’io. Comunque la causa è vinta da ‘n pezzo: famigliare è ortograficamente corretto.